Dx-0.010 - Pedro Daniel Pantaleone
Un senso di violata perfezione pervade la spazialità contemporanea. Nella mitologia dell’oggetto architettonico come sintesi di un’ideologia razionale e razionalizzante si apre una crepa. Una crepa profonda ed inevitabile che lascia fuoriuscire i prodotti di cotanta volontà di potenza, e che ci informa su ciò che ci siamo lasciati indietro, nel tentativo di essere moderni.
L’unitarietà, la purezza, l’equilibrio ed il controllo, l’idea di ottimo e di minimo, insieme all’irriducibile connotazione positiva e progressiva del futuro perdono la nostra attenzione e lasciano spazio al contenuto inaspettato di questa frattura. Una discontinuità terribile ma affascinante. Lasciano spazio ad una condizione precaria e vulnerabile, de-centralizzata e pertanto fuori controllo, in cui un rumore di fondo ci ricorda costantemente che qualcosa è andato storto, che ‘il futuro non arriva mai’[1].
Niente panico però, un cristallo che va in frantumi possiede innegabilmente la sua estetica ed il suo fascino, e produce tanti piccoli pezzetti, ognuno con la sua propria, distinta, identità.
Ed è proprio identitaria la lezione che abbiamo da imparare ed assorbire dal fallimento di un impero, perchè ci dice chi siamo se siamo capaci di cogliere i prodotti di scarto che questa demolizione ha come effetto, ed apprezzarli nella loro singolarità.
L’esplicitazione del vuoto che questa frantumazione produce ci informa su come le parti di un insieme siano sempre state lì, distinte e discrete, così come si presentano di fronte a noi quando c’è un abisso a separarle.
Ed è appunto di quest’abisso che quest’opera tenta di dare una rappresentazione plastica, fissando il vuoto come prodotto discontinuo e relazionale di un equilibrio metastatico.
Un equilibrio che non è mai tale, che non parla delle nostre capacità, quanto piuttosto delle nostre deficienze, del prodotto differenziato che costituisce l’identità di un frammento. Del valore che il finito ed il limitato hanno, e di come possiamo beneficiarne se accettiamo di dialogarci.
L’estetica del negativo diviene dunque occlusione ed opacità visiva, in cui l’implicito che si intra-vede è più importante ed interessante di ciò che è esplicito e si vede. L’estetica del negativo si traduce in un’irrisolvibile finitezza ed irregolarità delle parti che disordina e distorce lo spazio.
Si traduce nella tensione e trazione che ci sottrae costantemente da una, forse noiosa ed irraggiungibile, unità.
[1] Robert Pepperell, The Posthuman manifesto, 2005
A sense of violated perfection pervades contemporary spatiality. In the mythology of the architectural object as the synthesis of a rational and rationalizing ideology a crack opens. A deep and inevitable crack that lets out the products of such will to power and that informs us about what we left behind, in an attempt to be modern.
The unity, purity, balance and control, the idea of optimum and minimum, together with the irreducible positive and progressive connotation of the future lose our attention and leave room for the unexpected content of this fracture. A terrible but fascinating discontinuity. They leave room for a precarious and vulnerable condition, de-centralized and therefore out of control, in which a background noise constantly reminds us that something has gone wrong, that ‘the future never arrives’ [1].
Don’t panic, however, a shattered crystal undeniably possesses its own aesthetic and charm and produces many small pieces, each with its own distinct identity.
And it is precisely on identity the lesson that we shall learn and absorb from the failure of an empire, because it tells us who we are if we are able to grasp the waste products that this demolition has as an effect, and appreciate them in their singularity.
The emptiness that this shattering produces informs us of how the parts of a whole have always been there, distinct and discreet, as they appear before us when there is an abyss separating them.
It is precisely of this abyss that this work attempts to give a plastic representation, fixing the void as a discontinuous and relational product of a metastatic equilibrium.
A balance that is never such, that does not speak of our capacities, but rather of our deficiencies, of the differentiated product that constitutes the identity of a fragment. Of the value that the finite and the limited have, and how we can benefit from it if we agree to engage with them. Thus, the aesthetics of the negative becomes occlusion and visual opacity, in which the implicit that we glimpse is more important and interesting than what is explicit and can be seen. The aesthetics of the negative translates into an unsolvable finiteness and irregularity of the parts that disorder and distort space.
It translates into the tension and traction that constantly subtracts us from a, perhaps boring and unattainable, unity.
[1] Robert Pepperell, The Posthuman manifesto, 2005